martedì 4 novembre 2008

chi è il mio prossimo?




«Chi è il mio prossimo?» chiede lo scriba; e la sua domanda diventa stimolo a una riflessione approfondita. S’immagina, quindi, un mondo dove lui, lo scriba, occupa il centro dello spazio e attorno a lui si collocano gli altri uomini, alcuni vicini (prossimi), altri lontani (non prossimi).

Il problema sta dunque nel determinare quella linea ideale che separa questi due ambiti; possiamo far passare questa linea molto vicino e considerare come “prossimi” solo i parenti e gli amici; possiamo allargare l’ambito e considerare tra il prossimo anche i concittadini, i connazionali… ma ci sarà sempre un limite oltre il quale il dovere di amare il prossimo non sussiste più. Chi è meschino amerà pochi; chi è generoso si sentirà chiamato ad amare molti; in ogni caso si tratterà di definire i confini dell’amore e, al contrario, gli ambiti in cui non sono tenuto ad amare. Per questo, Luca nota che, con la sua domanda, lo scriba cercava un pretesto per giustificarsi.


Farsi prossimo
Cancelliamo allora la linea divisoria tra i vicini e i lontani e diciamo che si debbono amare tutti, senza eccezione. È risposta nobile, certo; è risposta vera; ma non correrà il rischio di diventare risposta astratta? Che senso può avere amare i lontani che non vedo direttamente, che non disturbano le mie abitudini e non minacciano i miei beni? Sembra più difficile del previsto determinare il senso di quel comando: «Ama il tuo prossimo come te stesso».

E allora Gesù ci racconta una parabola; è il suo metodo usuale per superare i punti morti della discussione. Ci parla, Gesù, di un uomo assalito dai briganti e lasciato lungo la strada “mezzo morto”; ci parla di persone religiose (un sacerdote, un levita) che passano, vedono il ferito e s’affrettano ad allontanarsi; ci parla, infine, di un altro viandante che prova compassione (e cioè sente la miseria del ferito come fosse sua), s’avvicina (il verbo va notato attentamente) e compie una serie di gesti premurosi che hanno lo scopo (e l’effetto) di salvare la vita del malcapitato. Il racconto termina con una domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» (Lc 10, 36). Abbiamo spostato l’interrogativo: non si tratta più di definire chi è il prossimo; si tratta di vedere come farsi prossimo di chi ha bisogno. E vale la pena osservare alcune cose.

Davanti all’uomo
Il ferito è, nel racconto di Gesù, semplicemente uomo. Io vorrei saperne di più: un giudeo o un pagano? un bianco o un nero? un nomade o un sedentario? un milanese o un meridionale? Niente: un uomo. L’esistenza di un uomo, la miseria di un uomo – di qualsiasi uomo – devono essere sentite come un appello sufficiente alla solidarietà, come sorgente di “compassione”. Se dell’identità del ferito la parabola non ci dice nulla, ci dà invece un’informazione precisa sull’identità di colui che si ferma: è un samaritano. Samaritano vuol dire, dal punto di vista religioso, lo scismatico, dal punto di vista etnico il diverso, dal punto di vista sociale l’emarginato; è il lontano per definizione, il non-prossimo. Non conta; è lontano ma “si fa” vicino. Il concetto di prossimo si sposta da una visione statica a una prospettiva dinamica. Non si tratta di definire astrattamente “chi è’ il prossimo; si tratta di collocarsi nel modo giusto di fronte al bisogno dell’altro, dell’uomo; si tratta di “avere compassione” dell’uomo non perché è parente o amico o compagno, ma semplicemente perché è uomo. Si tratta di ripetere personalmente il “sì” che Dio ha pronunciato (e continua a pronunciare) su ogni persona umana.